«MAURIZIO COSTANZO, CHE STRAORDINARIO DIALOGHISTA»: IL RICORDO DI PUPI AVATI
di Elisa Grando
Il regista ricorda la lunga, profonda amicizia con il giornalista che fu sceneggiatore di cinque suoi film, da Bordella a Zeder, e due sue miniserie. «Ci presentò Paolo Villaggio. Maurizio era davvero brillante nei dialoghi. I film che ho fatto con lui sono uno diverso dall’altro ma hanno in comune la voglia di azzardare ipotesi e provocazioni nostre: tipico di chi è ancora nell’illusione di poter cambiare un po’ il mondo»
«Maurizio era uno straordinario dialoghista. Più che sulla struttura narrativa, o sull’aspetto drammaturgico, era davvero brillante nei dialoghi. Soprattutto nelle parti più vivaci dei film, il suo suggerimento sulle battute dava sempre un colpo di reni». A ricordare il segno che Costanzo, scomparso il 24 febbraio, ha lasciato anche sul grande schermo e nel suo cinema è Pupi Avati: insieme hanno scritto cinque dei film del regista, più le miniserie Jazz Band e Cinema!!!. Costanzo firmò anche una regia, nel 1977, di Melodrammore, con Enrico Montesano e Amedeo Nazzari nel ruolo di se stesso, scrisse in tutto più di venti film, tra i quali Una giornata particolare con Ettore Scola, e contribuì a inventare il personaggio di Fracchia. Fu proprio Paolo Villaggio, nel 1972, a presentare Costanzo ad Avati: «Paolo aveva appena girato con me La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone e mi disse che Costanzo, all’epoca famosissimo come conduttore radiofonico di Buon Pomeriggio con Dina Luce, avrebbe voluto conoscermi», ricorda Avati. «Un pomeriggio Paolo e io andammo a via Asiago e mi presentò Costanzo: siamo diventati amici e da lì è nata la nostra collaborazione». Il primo lavoro insieme è Bordella, «film molto trasgressivo, tant’è vero che fummo tutti condannati per oscenità dal Tribunale di Latina. L’amicizia si rinsaldò con La casa delle finestre che ridono, un film produttivamente molto piccolo, gotico, che è ancora un cult. Il nostro successo più grande fu la serie Jazz Band per Raiuno che ebbe 18 milioni di telespettatori. Dopo Tutti defunti… tranne i morti, facemmo un film totalmente improvvisato che si chiamava Le strelle nel fosso, una favola contadina. Quando Maurizio ha vissuto il periodo più nero della sua vita e doveva stare nascosto io e mio fratello Antonio ci impegnammo a fargli compagnia e scrivemmo insieme Zeder».
«La nostra è stata soprattutto un’amicizia profonda», dice Avati. «Avevamo una grande conoscenza reciproca: certi aspetti della sua visione del mondo e della vita, molto personali, li tengo per me. Però tra me e lui c’era una complicità e una vicinanza, anche perché abbiamo esattamente gli stessi anni. Siamo una generazione transitata attraverso tre Italie completamente diverse: quella pre-bellica del fascismo e della monarchia, nella quale eravamo bambini, l’Italia della guerra, terribile, e quella del dopoguerra. È come se avessimo vissuto tante vite».
Costanzo è stato un maestro del giornalismo e dell’attualità, ma nel cinema di Avati ha esplorato anche territori diversi, l’immaginifico, l’horror: «I film che ho fatto con Maurizio sono tutti uno diverso dall’altro ma hanno in comune questa voglia di scrollarsi di dosso quello che è stato già fatto per azzardare ipotesi, provocazioni nostre. Tipico di chi è ancora nell’illusione di poter cambiare un po’ le cose», dice il regista. «Negli ultimi tempi, nelle telefonate che ci siamo fatti con Maurizio, ho avvertito che in lui c’era una sorta di amarezza di fondo. Non aveva più la sfrontatezza che ho ancora io, che non voglio pensare di essere un vecchio pur essendolo. Invece in lui era subentrata la parte razionale, come fosse consapevole di quel momento in cui in cortile i bambini, dopo aver giocato, vengono richiamati in casa dalle loro mamme. E ho visto tanti amici che, chiamati dalle loro mamme, in cortile poi non sono più tornati».