AUGURI AL MAESTRO DANTE FERRETTI: «LA SCENOGRAFIA ALLA QUALE SONO PIÙ AFFEZIONATO? QUELLA DEL PROSSIMO FILM»
di Elisa Grando
Lo scenografo ha compiuto 80 anni, tanti quanti i premi vinti anche con la moglie Francesca Lo Schiavo tra i quali 3 Premi Oscar e 4 David di Donatello per film entrati nella storia, da E la nave va a Il nome della rosa. Dall’amicizia con Fellini e Scorsese ai prossimi progetti, viaggio in una carriera che ha forgiato mondi cinematografici straordinari, con lo sguardo sempre rivolto al futuro
Il maestro Dante Ferretti ha 80 anni. «80 anni più un giorno», specifica lui. Lo sentiamo proprio all’indomani del suo compleanno, festeggiato il 26 febbraio con una quarantina di amici, e un menu a base di fiori. «I fiori sono stati un’idea sua?», chiediamo. «Idee ne ho poche», scherza. Perché proprio grazie al germogliare inesauribile delle sue idee ha creato interi mondi cinematografici che hanno segnato l’immaginario del pubblico di tutto il mondo. Per omaggiare il suo compleanno tondo e la sua straordinaria carriera partiamo dai premi («più di 80 in tutto tra me e mia moglie Francesca Lo Schiavo», sottolinea, «compresi i miei tre Oscar e i tre di Francesca»), in particolare dai 4 David di Donatello, più un Premio Cinecittà, vinti da Ferretti per la migliore scenografia. Il primo, nel 1983, è per Il mondo nuovo di Ettore Scola, nel quale ha ricostruito la Parigi di fine ‘700 con la regola che si è sempre dato: «Fare volutamente degli errori, perché quando tutto è perfetto è tutto finto. Con gli errori, diventa più vero, più credibile. Basta guardarsi intorno nella vita, nelle città: mai niente è perfetto». Due David sono legati alla sua collaborazione con Fellini: nel 1984 per E la nave va, nel 1990 per La voce della Luna. «Per il primo abbiamo ricostruito tutto in teatro, nello studio 5 di Cinecittà. La nave era su un bilico in modo che non stesse mai ferma. La cosa divertente è che Fellini voleva che si muovesse tutto, ma lui non ci saliva perché soffriva il mal di mare». Il gusto per il grandioso e per la costruzione è un tratto che Ferretti ha in comune con Fellini: «Ero contento perché anche a lui piacevano le cose grandi, andavamo perfettamente d’accordo. Era divertente fare il mare di plastica, realizzare tutte quelle cose false ma che sembravano vere, come il rinoceronte scultura che abbiamo tirato sulla nave: non c’era niente di preso dal vero, si reinventava tutto, anche il paesino di La voce della Luna».
In mezzo, nel 1997, arriva il David per Il nome della rosa di Jean-Jacques Annaud, col riferimento importante del romanzo di Umberto Eco. «Anche lì è stato divertente perché abbiamo ricostruito completamente l’intera abbazia trecentesca a Prima Porta a Roma. Un giorno mi chiamò una rivista di paesaggi e mi disse: “Senta Ferretti, non riusciamo a trovare l’abbazia dove avete girato il film, ma dove si trova?”. Ho detto: “È semplice: basta che andiate a Prima Porta, c’è una cava di tufo, la trovate lì. Ma vi dovete sbrigare per fare le foto perché fra tre giorni cominciano a smontarla. Non ci credevano che non fosse un’abbazia vera». La magia di Ferretti ha sempre funzionato anche grazie a collaboratori straordinari che realizzavano le sue visioni, a partire dalla moglie scenografa Francesca Lo Schiavo: «Bravissima, perfetta. Leggevamo la sceneggiatura, ci parlavamo poco, solo all’inizio e poi ognuno faceva il proprio lavoro che si legava perfettamente a quello dell’altro».
Fu proprio dopo Il nome della rosa che Terry Gilliam lo chiamò per Le avventure del barone di Munchausen e si aprì l’avventura di Hollywood: «Ricevetti la prima nomination all’Oscar. Il film non incassò molto ma mi dissero che era la scenografia più bella mai fatta nella storia del cinema». Ferretti conobbe poco dopo Martin Scorsese, «quando venne in Italia a trovare Fellini insieme a Isabella Rossellini, che sposò proprio a Roma. Poi Martin mi chiamò per fare L’età dell’innocenza: ero già impegnato in un altro film ma ho mollato tutto e ho preso l’aereo per New York. Insieme abbiamo fatto nove film». Un’amicizia mai interrotta anche quando, nelle sabbie mobili della pandemia, la collaborazione per l’ultimo film di Scorsese Killer of the Flower Moon si interrompe: «Ho lavorato al film per due anni in Oklahoma, l’ho praticamente disegnato tutto io. Sono tornato a Roma per le feste Natale, e poco dopo è iniziata la pandemia. A quel punto ci siamo fermati per due anni. Mi avevano offerto un altro film, dovevo lavorare e ho detto di sì, ma a un certo punto Martin ha deciso di cambiare un po’ tutti, sette otto persone che hanno sempre lavorato con lui, compresa la produttrice. Ma mi ha anche scritto una mail per scusarsi».
Ferretti ha dato forma ai mondi di Pasolini, Tim Burton, Elio Petri, Neil Jordan. I tre Oscar sono arrivati per le scenografie maestose di The Aviator, Sweeney Todd e Hugo Cabret. Ma la scenografia alla quale è più affezionato, qual è? «Sempre quella del prossimo film». Anche in questi giorni è impegnatissimo: la settimana scorsa ha finito di lavorare al film Verona di Timothy Bogart, un musical su Romeo e Giulietta, nel suo futuro c’è forse un biopic sul boss Carlo Gambino. Lui resta fedele al principio della costruzione dal vero: «Solo se devo creare scenografie enormi uso il digitale e metto dietro il green screen, ma naturalmente disegno tutto io. Adesso mi ricostruisco: dopo gli 80 anni più un giorno, ora vedo di ricostruire la seconda parte».