SANDRA MILO: «HO INCARNATO LA DONNA DEI SOGNI: UN BEL GIOCO, MA SEMPRE FATTO CON LA TESTA»
di Elisa Grando
L'attrice, che domani sera riceverà il David di Donatello alla carriera 2021, racconta una vita di cinema a fianco dei grandi maestri, tra tante felicità e qualche dolorosa delusione. Pronta a reinventarsi in un ennesimo ruolo che scavalca le convenzioni
Sullo schermo è stata una delle donne più desiderate del cinema italiano, la ragazza degli amori disillusi, l’amante spensierata come antidoto alla noia delle mogli, in anni in cui però solo le legittime consorti avevano il loro posto assegnato nella società. Sandra Milo non si è mai spaventata di fronte a ruoli non convenzionali e allo sguardo che su di lei hanno posato i grandi autori, come Federico Fellini, Roberto Rossellini, Jean Renoir, Antonio Pietrangeli, Dino Risi, Gabriele Salvatores, Pupi Avati, Gabriele Muccino. Adesso, a 88 anni, è pronta a interpretare una drag queen nella pièce teatrale “Ostriche e caffè americano” di Walter Palamenga: il David di Donatello alla carriera che l’Accademia del Cinema Italiano le tributa quest’anno arriva mentre Sandra è ancora in piena sperimentazione.
Signora Milo, che emozione le dà ricevere questo David di Donatello?
«Lo vivo come un premio per tutti i miei film, anche per quei registi con i quali ho lavorato ma che non ce l’hanno fatta a diventare grandi: vorrei che un pezzetto andasse a tutti loro, perché comunque avevano un sogno e ci hanno messo impegno».
Lei ha incarnato spesso donne amate ma ingannate, quasi mai le compagne ufficiali. Perché?
«Ho rappresentato un ideale di donna, un sogno. Perché non interpretarlo fino in fondo, pur rimanendo me stessa? Mi ha fatto piacere, era un gioco. Ho anche esagerato un po’ a interpretare la donna senza pensiero, ma l’ho fatto con consapevolezza».
Ora, sul palco, entra nei panni di una drag queen…
«La pièce racconta un gruppo di drag queen, tra il camerino e il teatro. Il mio personaggio scopre di avere un figlio ormai ventenne nato da una breve e intensa notte d’amore con una donna. Nel suo gruppo, dove la paternità è l’ultimo dei pensieri, questa notizia straordinaria turba tutti, ma alla fine vince l’accettarsi a vicenda. Mi piace anche per il messaggio che lancia: sul piano umano siamo tutti uguali, tutti possiamo generare la vita».
Qual è stato il momento più felice della sua carriera?
«Quasi tutti. Sono felice di fare questo lavoro e cerco di assaporare intensamente ogni momento della vita, piccolo o grande che sia. Poche volte mi guardo indietro, c’è un presente vicinissimo da vivere».
Ha qualche rimpianto?
«Non mi pento di niente. Ho dovuto provvedere a tre figli, li ho portati avanti da sola e non potevo arricciare troppo il naso di fronte ai ruoli che mi proponevano. Alcuni film forse erano meno belli ma per me il lavoro ha sempre dignità e interesse, se un regista ci mette passione».
Fra gli autori più importanti della sua carriera c’è certamente Antonio Pietrangeli, anche in due film amatissimi come Adua e le compagne e La visita. Che rapporto avevate?
«Era un grande regista, con un torto: non è mai stato un personaggio. Nel mondo dello spettacolo vanno quelli che si fanno notare. Antonio invece era molto timido, riservato, ma anche uno dei pochi che ha saputo interpretare l’animo femminile».
È vero che avrebbe dovuto interpretare Io la conoscevo bene?
«Pietrangeli l’aveva scritto per me: mi aveva chiesto com’era la vita di una ragazza sola e bella in una società in cui le ragazze sole e belle erano viste come cibo per tutti. Non è stato un periodo facile, ma eravamo brave a difenderci. Per Io la conoscevo bene, comunque, avevamo preparato anche i costumi, ma poi il ruolo andò a Stefania Sandrelli».
Cosa successe?
«Dopo Vanina Vanini di Rossellini non mi voleva più nessuno. Alla Mostra di Venezia il film fu accolto malissimo, ne dissero di tutti i colori, Rossellini non c’era e le critiche si scatenarono contro di me. Fui ribattezzata dal Corriere della Sera “Canina canini”, una cosa terribile. Tutti pensavano che avrei vinto la Coppa Volpi e ne sono uscita come una poveraccia che nessuno salutava. Il mio compagno voleva che lasciassi il cinema, io vivevo con mia mamma e mia nonna, e alla fine mi lasciai convincere».
Però poi tornò, chiamata da Federico Fellini per 8 e 1/2.
«Sono tornata al cinema grazie alla sua insistenza: Federico venne a casa mia perché non volevo fare il provino».
Qual è il ricordo più bello che conserva di Fellini?
«Per la presentazione di 8 e ½ a Milano non potevo essere presente perché avevo appena partorito la mia prima figlia Debora. Così Federico è venuto a trovarmi in clinica con tutti gli attori e ha fatto lì una specie di carosello, come nel finale del film. È stato bellissimo. Penso di averlo aiutato a scoprire dentro di sé la grande umanità che aveva. Amava moltissimo la gente ma non lo diceva mai. Era un uomo di grande pudore: nei film di Fellini non c’è mai una coppia che si bacia sulla bocca. C’è, certo, una grande sensualità, ma trattava questo istinto con grande rispetto, come le donne».
Ha un desiderio professionale da esprimere?
«Continuare con il teatro, che ha qualcosa di magico: c’è un momento in cui tu diventi tutto il pubblico, e tutto il pubblico diventa te. E al cinema sono convinta che il mio film più bello lo debba ancora fare».
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