MAGGIO 2022


DARIA D’ANTONIO, LA PRIMA VINCITRICE DEL DAVID DI DONATELLO COME MIGLIOR AUTRICE DELLA FOTOGRAFIA: «SUPERIAMO LE DISTINZIONI DI GENERE» di Elisa Grando


«Siamo nella direzione giusta perché la vittoria di una donna sia sempre meno un evento speciale», afferma D’Antonio, premiata per È stata la mano di Dio ex aequo con Michele D’Attanasio per Freaks Out. Un David67 speciale anche per il record di statuette al cinema napoletano, «la mia famiglia cinematografica: per me è stato il premio nel premio», dice D’Antonio. E ora la aspetta il Festival di Cannes con l’esordio di Jasmine Trinca

 


Daria D’Antonio è la donna dei record della fotografia nel cinema italiano. Non solo è la prima vincitrice del David di Donatello come Migliore Autrice della Fotografia per È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, ma è stata anche la prima (e per ora unica) candidata italiana, nel 2020 per Ricordi? di Valerio Mieli. Oltre a lei hanno ricevuto la candidatura al David per la migliore fotografia solo autrici francesi: Agnès Godard per Nuovomondo, nel 2007, Hélène Louvart per Lazzaro felice, nel 2019, e Crystel Fournier per Miss Marx, nel 2021. Ma Daria non ama le distinzioni di genere: «La distinzione la fanno l’estro e la capacità umana», dice. D’Antonio è anche una dei mentori di Becoming Maestre, il progetto di formazione del David di Donatello e Netflix rivolto proprio ai giovani talenti femminili del cinema nella regia, nel montaggio, nella fotografia e nel suono. Forse le candidate di domani, quando il genere di chi vince non farà più notizia. 

Daria, che emozione ha provato la notte della premiazione?
«Una grande felicità e anche soddisfazione, dopo tanti anni di lavoro. Il fatto che sia arrivato con questo film sulla giovinezza, la vitalità e la passione per il cinema ha un significato ancora più importante».

Questo David è anche un risultato storico per le donne che lavorano nel cinema…
«Dà grande speranza, soprattutto per le ragazze che vedono il lavoro nel cinema come un percorso complicato se si vuole avere anche una vita privata: è un lavoro che ti assorbe tantissimo, a volte si fermano prima o si avviliscono. Ma per fortuna le cose cambiano in meglio, stanno cambiando sia gli uomini, sia la percezione che noi donne abbiamo delle nostre possibilità. Mio figlio che ha 11 anni mi ha detto: «C’è poco da stare felici se in 67 anni sei la prima donna». Per fortuna le nuove generazioni non si pongono la questione di genere né come deterrente né come qualcosa da cui ci si debba emancipare. Danno per scontato che ci siano le stesse opportunità per tutti».

Perché ci è voluto così tanto per arrivare a premiare una direttrice della fotografia?
«Quando ho iniziato c’erano solo due operatrici, qualche ragazza assistente operatore, e una direttrice della fotografia, Chicca Ungaro, che dopo poco andò in Francia. Lì c’erano all’epoca molte più donne dietro alla macchina da presa. Uno dei miei miti, Agnès Godard, ha più di 75 anni, mentre io ne ho 45: abbiamo un gap di 30 anni con gli altri paesi. Le direttrici della fotografia più grandi di me sono emigrate, hanno magari fatto più televisione o non hanno avuto la possibilità di fare film che potessero concorrere. Tra le nominate, fino alla mia prima candidatura, c’erano state direttrici di altri Paesi che avevano avuto più possibilità di affermarsi ed essere coinvolte in progetti con autori affermati. Questo ritardo nel nostro Paese è anche lo specchio della situazione culturale. In un paese in cui il delitto d’onore è stato abolito nel 1981, l’aborto legalizzato 40 anni fa, sicuramente la percezione del ruolo della donna per anni ne ha subito l’influenza».

La questione di genere va superata anche quando si parla di “sensibilità femminile” nel cinema?
«Ci sono dei temi che le donne affrontano in modo più empatico, per vicinanza e similitudine, ma la sensibilità va al di là del genere, è una questione caratteriale. E poi mi dispiace che ancora si sottolinei “la prima donna” in qualcosa: è come dire “il primo direttore della fotografia coi baffi” o “sotto il metro e 50”. Credo si stia andando nella strada giusta affinché non ci siano più queste distinzioni, che comunque venga considerato sempre meno un evento speciale».

Dal palco ha ringraziato Luca Bigazzi. È importante avere dei buoni maestri?
«Assolutamente! A lui devo molto, mi ha insegnato tanto e mi ha spronata a fare sempre meglio. Insieme a lui ho lavorato con registi talentuosi, creativi: una scuola meravigliosa per i miei anni di formazione. Il primo film con Luca è stato Pane e tulipani. Sono stata felicemente per 13 anni con un gruppo di lavoro intelligente e illuminato».

Non ha fatto scuole di cinema: com’è nata questa passione?
«Mi piaceva la fotografia, passavo intere giornate in camera oscura, era il posto in cui mi sentivo meglio e potevo sperimentare ed inventare. Ho deciso che il mio lavoro dovesse essere legato ad essa in qualche modo. Allora, dopo il liceo, ho insistito per fare un’esperienza come volontaria su un set. Al mio primo film, Isotta di Maurizio Fiume, ho lavorato abusivamente: non avevo ancora 18 anni. Non avevo idea di cosa fosse la fotografia del cinema. L’ho imparato piano piano. Ma subito il lavoro artigianale e di gruppo, che ho scoperto essere la spinta più importante per fare un film, mi ha rapita. Ho lavorato con Pasquale Mari per due anni e poi è arrivato Pane e tulipani. Ci ho messo 15 anni per esordire come direttrice della fotografia con Il passaggio della linea di Pietro Marcello. Il fatto che non abbia fatto scuole e fossi abbastanza selvatica mi ha permesso di imparare liberamente, nella lunghissima gavetta che ho fatto mi sono dedicata al mio lavoro sempre con molta serietà e attenzione».

Come è riuscita a illuminare i ricordi di Paolo Sorrentino in È stata la mano di Dio?
«Non c’è stato niente di razionale o calcolato, la componente emotiva molto forte. Mi sono messa in una condizione di ascolto, mimetismo e rispetto per un racconto intimo e necessario. Ho fatto un lavoro in sottrazione. Con Paolo ci conosciamo da tanti anni: nel reparto fotografia ho fatto tutti i suoi film a parte This Must Be the Place, perché ho partorito dieci giorni prima delle riprese, e L’uomo in più. Ma come aiuto operatore ho fatto il suo primissimo cortometraggio, 24 anni fa».

Sembra che ci sia una visione comune di Napoli…
«Paolo non parla molto ma durante la lettura della sceneggiatura ha detto una frase che ha aperto qualcosa nella scatola dei miei ricordi emotivi ed è valsa più di tutte le spiegazioni: «È un film personale, parla di me, ma anche di tutti voi e di quel momento esatto in cui vi siete innamorati del cinema». Questo mi ha guidato per tutto il film. È esattamente quello che anche io ho vissuto all’età di Fabietto, quando cominciavo a innamorarmi del cinema a metà degli anni ’90. Abbiamo raccontato Napoli come entrambi la ricordavamo in quel periodo. Alla cerimonia di premiazione Bruno Oliviero ha detto: sentivo il profumo di quegli anni. Se ci siamo riusciti, è meraviglioso».

Un altro record, per numero di vittorie, a questo David 67 l’ha stabilito proprio il cinema napoletano, compresi entrambi i premi ai migliori attori Silvio Orlando ed Eduardo Scarpetta…
«È stato il premio nel premio: Mario Martone, Antonio Capuano, Toni Servillo, Nicola Giuliano sono la mia famiglia cinematografica. Il mio primo lavoro lungo è stato Teatro di guerra: sei mesi stupendi in teatro con Martone. Leonardo Di Costanzo poi lo conosco da quando ero poco più che adolescente. Sul set di Polvere di Napoli di Antonio Capuano ho conosciuto Paolo».

Qual è il segreto della “scuola napoletana”?
«Essere un po’ periferici rispetto al cinema istituzionale, canonico. La maggior parte di noi era autodidatta: era un momento storico felice per poter fare, imparare liberamente. Mi sento fortunatissima di avere vissuto i miei vent’anni in quel clima culturale».

Ed ora ha appena lavorato a due esordi femminili, Marcel di Jasmine Trinca e Billy di Emilia Mazzacurati, figlia di Carlo…
«Con Jasmine ci conosciamo da Romanzo criminale, negli anni è cresciuto un rapporto di sorellanza. Anche Marcel è un film molto personale, vicino alla sua storia e infanzia: la mia più grande soddisfazione è che le persone con cui lavoro vogliano condividere con me storie per loro importanti. Vuol dire che si fidano. Sono legata anche a Emilia: purtroppo non ho potuto fare tutto il suo film, ha continuato poi Alessandro Abate. Ho conosciuto Emilia quando aveva 8 anni. È stato emozionante vederla crescere, è una donna talentuosa e con una grande ironia».