Enrico Vanzina: «La formula della nostra commedia? Pensare al pubblico, non solo a noi stessi. Oggi racconterei l’aspetto ridicolo degli italiani globalizzati»
di Elisa Grando
Enrico Vanzina, sceneggiatore, scrittore e regista, David Speciale alla 68° edizione del David di Donatello, racconta la sua idea di cinema, la sua carriera insieme al fratello Carlo, il suo sguardo sull’Italia del presente. E cosa, secondo lui, non funziona nella commedia italiana contemporanea
«Ho vinto tutti i premi più importanti, mancava il David di Donatello. Credo che l’attenzione del David per la commedia sia importante: la commedia all’italiana è un genere fondamentale del nostro cinema. Ha subito molti pregiudizi, è sempre stata considerata un genere semplice, facile: fa bene ricordare quanto è centrale». Della commedia all’italiana Enrico Vanzina è un maestro: il David speciale che riceverà il 10 maggio è già stato accompagnato da migliaia di messaggi d’affetto da parte di colleghi, amici, ma anche del pubblico che si riconosce nell’immaginario tracciato dai 120 film che ha firmato da sceneggiatore, la metà dei quali realizzati col fratello Carlo, raccogliendo l’eredità del papà, Stefano Vanzina, il grande Steno. Non solo con i cult Sapore di mare e Vacanze di Natale: sono tanti i titoli dei Vanzina che hanno fotografato costumi, tic e vizi di cinquant’anni d’Italia. «È una bella storia famigliare, di una famiglia italiana che dal dopoguerra in poi si è passata il testimone reciprocamente producendo tra tutti oltre 200 film, che ha fatto il cinema sul serio. E ora il cinema dimostra il suo amore per questa famiglia che lo ha amato tanto».
Qual è, per lei, la chiave vincente della formula Vanzina?
«Pensare al pubblico, non solo a se stessi. Fare un cinema popolare, non autoreferenziale. Pensare al perché uno spettatore dovrebbe uscire di casa, parcheggiare un’auto, pagare un biglietto e vedere un film. Per fare delle commedie di questo tipo bisogna avere passione per quello che racconti, per l’Italia, gli italiani, guardare le fragilità senza condannarle moralisticamente. È stato il leitmotiv che ha mosso il grande cinema italiano di una volta, quello di mio padre, Germi, Risi, Monicelli e con Carlo abbiamo cercato di continuare un’osservazione quotidiana, senza puzza sotto il naso, con affetto, di grandezze e fragilità del popolo italiano. Nella commedia bisogna amare i propri personaggi e rispettare le ragioni degli altri».
Sono passati 40 anni da Vacanze di Natale e Sapore di mare, che hanno segnato un canone…
«Ma quando abbiamo smesso di fare questo genere i film si erano trasformati in film comici, anche farseschi. In quelli, invece, c’era una componente sentimentale molto forte che si mischiava con l’umorismo».
Gli arricchiti cafoni a Cortina, la perdita del sogno degli anni ’60 in Sapore di mare, i rampanti milanesi di Yuppies: oggi cosa andrebbe fotografato del costume italiano per raccontare il nostro presente?
«In questo momento c’è una trasformazione globale che porta gli italiani, globalizzati, ad aver perso alcune delle loro caratteristiche. In Un americano a Roma Sordi voleva essere americano pur essendo romano, oggi sono tutti globali: farei una commedia sulla globalizzazione della gioventù, ma anche della borghesia. Perché lo trovo un po’ ridicolo».
Quali sono i suoi titoli preferiti della sua filmografia?
«Alcuni film di genere, come Sotto il vestito niente, il thriller migliore degli anni ’80 in Italia. Era una fotografia della moda in quel momento, un thriller che si legava a qualcosa di molto italiano. E poi Il pranzo della domenica, l’ultimo film della commedia italiana, una storia famigliare dove c’è tutto, dal rapporto di coppia ai figli, dalle meschinità ai tradimenti, nell’impianto della tradizione forte della commedia all’italiana».
È vero che, tra tutti, Il cielo in una stanza è il suo preferito?
«Sì, un film semplice con un’idea di soggetto fortissimo, un padre che porta nel passato il figlio per fargli vedere com’era. Soprattutto nelle commedie, se sbagli il soggetto sbagli il film. Il tempo che passa è una dimensione importante del cinema: abbiamo fatto molti film sul tempo, anche comici, come A spasso nel tempo o Torno indietro e cambio vita, la nostra migliore sceneggiatura che si potrebbe rifare in tutti i paesi del mondo. Abbiamo lanciato tanti attori italiani: in Il cielo in una stanza c’era Elio Germano quando non era nessuno, e recitava anche Gabriele Mainetti. Il film non ha avuto successo ma nel mio cuore è il numero uno».
Anche nel suo ultimo libro, Diario diurno (edito da Harper Collins), ci sono molte riflessioni sul tempo. Il tempo che passa per lei è un amico o un nemico?
«È amicissimo, è il mio compare. In questo momento il problema della realtà italiana è proprio che siamo inchiodati a un presente continuo di notizie che ci bombardano. L’italiano non ricorda più, e immagina poco il futuro. Il tempo invece è questa specie di gioco meraviglioso che ti permette di andare indietro, sognare, ricordare, dimenticare, immaginare. Essere sempre coinvolti in un presente ossessivo rende la vita meno bella: siamo fatti per essere felici anche tornando indietro o andando avanti».
I vostri film hanno fotografato un’epoca, soprattutto gli anni ’80 e ’90, sempre con estrema libertà. Vi siete mai preoccupati del politicamente corretto?
«Bisogna chiarire il problema del politicamente corretto nelle commedie: quando metti in bocca a un personaggio certe battute non è il pensiero dell’autore, ma appunto del personaggio. Per esempio, la scena di Vacanze di Natale in cui i genitori a Capodanno trovano Christian De Sica a letto col maestro di sci oggi non si potrebbe più fare. Invece allora era quarant’anni avanti, una scena di grande apertura mentale che raccontava la reazione delle classi borghesi di fronte a un problema che veniva taciuto. È proprio il politicamente corretto non rispettato in certi film a far avanzare il pensiero del pubblico. Perché la vita sfortunatamente è così, anche con questi personaggi. Poi esiste anche l’umorismo cattivo che diventa antipatico perché è una visione di un certo tipo dell’autore. Ma in bocca a un personaggio chiaramente negativo o ridicolo non è grave».
Ha esordito alla regia con Lockdown all’italiana e poi con Tre sorelle. Qual è la cosa più importante che ha preso da suo fratello Carlo come regista?
«Con Carlo la divisione del lavoro era formale, a lui piaceva più la regia e a me meno, ma poi sul set ci andavo. Abbiamo seguito la scuola di Monicelli, Risi e mio padre: girare i film già montati. Non vogliamo dimostrare quanto siamo bravi: la macchina da presa è al servizio della storia, che è il core business del film. La bravura del regista si vede nel tono degli attori, nel ritmo, ma sempre difendendo sceneggiatura. Un brutto film non viene salvato da un grande regista, ma un cattivo regista può rovinare una buona sceneggiatura».
Che idea ha della commedia italiana contemporanea?
«Secondo me non è popolare. È una commedia moralistica o con un’idea dell’autore in testa, per dimostrare qualcosa: così non c’è uno sguardo diretto sulla realtà, ma uno sguardo con un preconcetto iniziale, giusto o sbagliato che sia. Poi le commedie nell’ultimo periodo sono sempre interpretate dagli stessi attori, e sono spesso sull’amore. Bisogna guardare invece a quello che ci succede intorno. A differenza del thriller, del film sociale o politico, nella commedia meno si sente la macchina da presa e più arriva la parte comica del film. Mio padre mi diceva se hai Totò e Peppino che stanno parlando in scena e fai un campo a due è più divertente che se li riprendi sui primi piani: così sembra che la scena comica stia avvenendo davanti a te».
A cosa sta lavorando?
«Ho scritto due film, un giallo e una commedia, e sto cercando di realizzarli, ma è complicato perché sono film per la sala. Se fa un film per le piattaforme, è un altro lavoro. E sto scrivendo il mio prossimo romanzo, non più un giallo ma una storia realistica sull’oggi. E poi faccio il giornalista per il Messaggero, e ho già fatto due mostre di fotografia, una cosa che mi diverte molto».
Dove trova il tempo per tutto?
«Dormo poco: questo David speciale lo devo anche al fatto che nella vita, come De Niro in C’era una volta in America, sono sempre andato a letto presto. La mattina mi sveglio prima e faccio tante cose, alcune mi sono riuscite meglio di altre. E viaggio moltissimo ogni settimana: un modo bello per capire questo paese».