«La regista compie 90 anni e racconta al David di Donatello una vita di cinema libero, senza compromessi e immerso nei grandi snodi della Storia. Guardando alle rivoluzioni di oggi e con un nuovo film in arrivo al cinema
Per Liliana Cavani il cinema nasce dalla storia, contemporanea o del passato, nella quale immergersi con passione sì, ma prima di tutto con lo studio, con la ricerca. «Ho creduto subito nel cinema come possibilità di racconto per immagini», dice. Nel 2012 ha ricevuto il David Speciale per la sua carriera che, della Storia, ha raccontato anche le contraddizioni e il confine frastagliato tra bene e male. Cavani festeggia i suoi 90 anni poco dopo aver finito di girare il suo nuovo film, “L'ordine del tempo”, ispirato al saggio del fisico Carlo Rovelli, con Alessandro Gassmann, Claudia Gerini, Edoardo Leo, Ksenia Rappoport e Valentina Cervi.
Durante la festa organizzata per lei qualche giorno fa dal Ministero della Cultura, Marco Bellocchio ha affermato che ad accomunarvi è la coerenza. Cosa significa per lei essere rimasta coerente col suo cinema?
«Non ho mai accettato compromessi, e neanche lui. Il cinema l’ho sempre pensato come volevo. Penso che tutti gli autori seguano scelte che fanno parte della loro cultura, del loro carattere: io sono cresciuta in una famiglia di persone socialiste anche durante il fascismo, e ai fatti sociali sono sempre stata dentro, fin da bambina».
Cosa il cinema dovrebbe raccontare con urgenza oggi?
«I temi sono tanti. L’Iran, per esempio: la situazione ricorda più il Medioevo che il ventunesimo secolo. Non è accettabile che la donna sia trattata in quel modo: è una cultura in cui si è bloccato qualcosa, che ha perso le tracce umane. Speriamo che possano resistere, perché è una rivoluzione fondamentale, al pari dei grandi accadimenti del Novecento. Mio nonno credeva nel progresso, ma la storia racconta quasi sempre il contrario: quello che è accaduto con i lager, o quello che accade oggi in Iran, sono segni di inumanità».
C’è qualcosa che, guardandosi indietro, farebbe diversamente?
«No, mi sono appassionata facendo i miei film perché mi piace sapere come sono andati e vanno i fatti. Con l’università, a Lettere Antiche, sapevo tutto della guerra del Peloponneso o degli antichi romani, scoprire il Ventesimo secolo è stata un’avventura difficile. Avevamo alle spalle due guerre mondiali feroci».
Da dove nasce il suo innamoramento per il cinema?
«Mia madre mi portava al cinema fin da quando avevo 4-5 anni. Poi, all’università, con degli amici ho aperto un cineclub a Carpi. Andavamo a prendere a Bologna le pellicole di Bergman e De Sica per mostrare i film che non si vedevano».
Qual è il suo film al quale è più legata?
«Non saprei scegliere. I cannibali sicuramente è stato un film importante: l’ho girato nel 1968-69, nel momento in cui la mia generazione amava la vita, cercava il cambiamento. Il film è stato a Cannes alla Quinzaine e poi è stato invitato da Susan Sontag a New York dove ha ricevuto applausi straordinari. La Paramount mi ha chiamata perché voleva comprarlo, solo che avrei dovuto cambiare il finale. Il film finisce tragicamente perché è tratto da una tragedia classica, l’ “Antigone”: come potevo cambiarlo? Ho dovuto dire no. Così non è uscito in America e in altri paesi».
Erano anni movimentati anche sul piano internazionale…
«Al festival di Venezia del ‘68 si parlava dei russi che si erano riappropriati di nuovo della Cecoslovacchia. Io avevo conosciuto Milos Forman a Praga nei giorni in cui la Cecoslovacchia si era da poco liberata dall’invasione sovietica. A Venezia quell’anno avevo “Galileo”, un film trascurato ma importante e, secondo me, modernissimo. E lì al festival dicevo ai colleghi: vogliamo andare a Praga a vedere cosa succede? I carri armati erano tornati. Invece non si riusciva a parlarne. E questo mi ha deluso molto, ho avuto anche dei ripensamenti sul piano politico».
“Galileo” è stato il suo primo film censurato. Poi ha incontrato la censura anche con “Il portiere di notte”. Si è mai domandata, girando i suoi film, fin dove potesse spingersi?
«No, ho sempre pensato di vivere in un paese democratico dove c’è libertà d’espressione. Era finita la guerra, la dittatura, era nato uno stato moderno e l’ho vissuto con la massima convinzione. “Il portiere di notte” è stato ritirato tre volte, la commissione mi disse che lo limitava ai diciottenni perché si vedeva una scena di sesso in cui la donna stava sopra l’uomo. Mi hanno lasciata allibita».
Charlotte Rampling in Il portiere-di-notte
È stata una delle prime registe italiane a fare davvero parte dell’industria. Ha mai sentito pesare il suo essere donna?
«Forse quando, a volte, ho dovuto attendere per fare dei film. Ma non me ne sono accorta pienamente, quindi non ho mugugnato».
A San Francesco ha dedicato tre film nel 1966, nel 1989 e nel 2014: perché è così importante per lei?
«Il primo l’ho fatto perché avevo vinto un concorso alla Rai, ma avevo rifiutato l’assunzione perché volevo essere libera di accettare o meno i programmi. Mi hanno fatto lavorare lo stesso proponendomi documentari importanti come “Storia del Terzo Reich”, “L’età di Stalin”, o “La donna nella Resistenza”. Poi ho conosciuto persone meravigliose, francescane. Francesco mi ha attirato perché non ha tempo, e potrei dire che è più attuale di noi: ha capito che siamo tutte creature e si è posto delle domande istintive, da giovane qual era, sopravvissuto a una guerra feroce e una prigionia ancora più feroce. È valsa la pena poi di riprenderlo perché è modernissimo e, in questo secolo, gli studi su Francesco hanno avuto uno sviluppo. Nel terzo film ho raccontato di più anche Chiara, approfondendo la sua vita. Siccome in casa mia non erano religiosi e non andavano in chiesa, Francesco e Chiara sono stati per me una scoperta fantastica».
Mickey Rourke in Francesco
Della Chiesa ha indagato anche la differenza di potere tra uomini e donne, con il documentario “Clarisse”…
«Il tema mi incuriosiva: nella mia famiglia le donne erano molto aperte. Ho conosciuto donne dall’attività politica e sociale intelligentissima. Ho sempre fatto ricerca. ho intervistato anche le donne che hanno combattuto nella Resistenza. Ne ricordo particolarmente due: una sopravvissuta a Dachau e una sopravvissuta ad Auschwitz. E le loro dichiarazioni mi hanno fatto una grande impressione».
Dalla storia al tema del tempo: quando arriverà il suo nuovo film in sala?
«Sto solo lavorando all’edizione. Mi preoccupa che gran parte del pubblico stia soltanto davanti alla televisione. È molto grave. Spero che prestissimo la situazione torni normale».