Silvio Orlando: «Col nuovo film di Nanni Moretti si chiude il cerchio di un rapporto fondamentale»
di Elisa Grando
L’attore si racconta: la gioia per la vittoria ai Premi David di Donatello come Miglior Protagonista per Ariaferma, l’importanza del teatro e la forza del cinema partenopeo: «Napoli è la città dell’auto rappresentazione: quando la sua energia trova i canali giusti, non ce n’è per nessuno».
«Quando dal palco dei Premi David di Donatello ho sentito il mio nome, mi è passata la vita davanti. Quelle degli attori sono vite più faticose di quello che si possa immaginare. E vincere con un film come Ariaferma, sulla carta così indipendente a confronto con grosse produzioni, è come vincere lo scudetto col Napoli invece che con la Juventus».
È passato più di un mese dalla notte in cui Silvio Orlando ha ricevuto il David di Donatello 2022 come Miglior Attore Protagonista per il film di Leonardo Di Costanzo, ma l’emozione è ancora tutta lì nella sua voce. Di David ne aveva già vinti due, nel 1998 come Miglior Non Protagonista per Aprile e nel 2006 come Miglior Protagonista per Il caimano: entrambi film di Nanni Moretti. E su un set di Moretti, quello di Il sol dell’avvenire, ha appena trascorso le ultime settimane: «Credo che rappresenti un ritorno al cinema di Nanni più apprezzato e amato da tutti», dice Orlando. «Per me è una gioia, sento che Nanni è contento di questo materiale così magmatico e anarchico, con una forma di libertà enorme. Sul set non c’è stato mai un giorno uguale all’altro. Attraverso quest’ultimo premio sono riuscito a chiudere un cerchio col David di Donatello, e anche con Nanni mi sembra che si stia chiudendo il cerchio di un rapporto fondamentale».
Orlando, lei ha ricevuto ben 12 candidature al David di Donatello a partire dal 1991 per Il portaborse, il suo primo film da protagonista…
Tutta la mia carriera si può ricostruire attraverso le candidature ai David: sono importanti perché dimostrano attenzione al lavoro che ho fatto. Quella prima volta però non l’ho vinto ed è iniziato il mio corpo a corpo con questo premio. Prima di vincere come Migliore Non Protagonista sono passati sette anni, come Miglior Protagonista quindici. Mi è venuto un po’ di scoramento, la sensazione di essere sulla soglia ma non far bene parte di quella famiglia.
Difficile, in questi casi, gestire la delusione?
Non sono un tipo che fa lo sportivo: quando non lo vincevo, ci rimanevo male sempre. Fa parte delle insicurezze dell’attore, che a volte vive un’autoesaltazione eccessiva e altre un abbattimento altrettanto eccessivo. È difficile mantenere un equilibrio.
Stavolta ha vinto con un personaggio molto diverso rispetto ad altri ruoli iconici della sua carriera…
Ariaferma è stato un’avventura. Ho già interpretato personaggi negativi, ma qui c’era una novità: il carcerato Carmine Lagioia doveva emanare carisma e potenza di primo acchito, mentre di solito costruisco personaggi che prendono il centro della scena poco a poco. I miei passaggi teatrali mi hanno aiutato a trovare quel tipo di carisma in personaggi come Il Mercante di Venezia, un uomo che incuteva paura e mistero.
Ma qual è stata la chiave decisiva per diventare Lagioia?
Ho lavorato sulla memoria. Il mestiere dell’attore è basato sul riattivare dentro di te molle emotive che ti consentono di affrontare gli stati d’animo dei personaggi. Per una forma di pudore e rispetto per le vite dei carcerati avevo paura di non farcela. Nella realtà carceraria bisogna muoversi con una grande cautela perché si entra in un mondo senza speranza con persone alle quali, per un periodo breve o lungo, è stata sottratta la cosa più importante per un essere umano: la libertà.
Quanto è stato importante girare in un vero carcere, a Sassari?
Moltissimo. Quelle pareti restituivano un senso di paura, minaccia, vuoto anche esistenziale. È un luogo che per anni ha accolto tante anime perdute, tra carcerati e guardie carcerarie. Sarebbe stato diverso in un carcere ricostruito.
Il David 67 è stata l’edizione dei record per numero di premi al cinema partenopeo. Qual è il segreto della scuola napoletana?
Napoli è una città dove spesso l’equilibrio psichiatrico delle persone è fondato su una auto rappresentazione di sé: si dice che la città è un grande palcoscenico. È l’esigenza di sopperire a certe forme di squilibrio della città stessa attraverso un mondo fantastico e poetico, che sta lì sempre, e spesso rimane sommerso. Ma poi, quando questa grande energia trova i canali giusti per potersi esprimere, non ce n’è per nessuno. Anche attraverso il cinema Napoli è una città che fa parte dell’immaginario collettivo, come New York: quando ci arrivi per la prima volta hai la sensazione di esserci già stato.
Perché accettando il David ha invitato il mondo del cinema a macinare chilometri, come ha fatto lei per il teatro, per affrontare il nostro presente difficile?
È inutile che pensiamo di applicare formulette, le storie bisogna andarsele a cercare nel mondo, dove succedono. Per me questo è il teatro: mi costringe ad andare in giro, a uscire di casa. Il senso della mia professione lo posso capire solo attraverso il contatto con il mondo. È il lavoro che bisogna fare, invece tendiamo a impigrirci sui nostri bei divani, di fronte ai nostri bellissimi televisori, nelle nostre abitudini casalinghe. Ma quando si rimane da soli scatta sempre un meccanismo autolesionistico. Ho detto quelle parole anche come omaggio alla vita del teatro, importante per un attore che altrimenti si avvita nella nevrosi dell’attesa.