GINA LOLLOBRIGIDA, LA DIVA CHE PIACEVA AGLI SCRITTORI E AI BAMBINI
di Elisa Grando
Dal primo David di Donatello della storia come Miglior attrice protagonista al successo tra il neorealismo rosa e Hollywood, da quel documentario rinnegato che le dedicò Orson Welles all’intuizione di Comencini di farne la perfetta Fata Turchina: storia di una diva leggendaria, che prima ancora di essere attrice voleva essere un’artista
Gina Lollobrigida, scomparsa il 16 gennaio a 95 anni, ci teneva ad essere considerata un’artista, ancor prima che un’attrice. Anzi, raccontava spesso che all’inizio non voleva lavorare nel cinema: iniziò solo per aiutare la famiglia. L’arte invece fu il suo primo istinto fin da ragazzina, quando si iscrisse all’istituto di Belle Arti, e a fotografia e scultura tornò in terza età, dopo essersi allontanata dallo schermo. Ma era anche un talento nel canto, come dimostra la sua limpida voce in “La donna più bella del mondo” nel quale interpretava la cantante lirica Lina Cavalieri. Per quel ruolo Gina vinse il primo David di Donatello in assoluto alla miglior attrice protagonista: era il 1956, la primissima edizione dei premi. Ma ancor prima nei panni della Bersagliera, scalza, con i capelli legati in due code e il broncio impertinente, aveva già messo d’accordo pubblico e critica. È sempre il pubblico, due generazioni dopo, ad averle reso omaggio ai funerali nella Chiesa degli Artisti in Piazza del Popolo a Roma, insieme a una vera delegazione di Bersaglieri: un esempio, fra tanti, di come Gina sia entrata indelebilmente nell’immaginario popolare, così come nel dibattito culturale.
“Pane, amore e fantasia” era piaciuto a Moravia, e proprio da un suo racconto verrà tratto l’anno successivo “La romana”, che Italo Calvino recensì con entusiasmo dopo la proiezione alla Mostra di Venezia, elogiando soprattutto l’interpretazione di Gina: «La sua bellezza un po’ irreale pare respingerla verso figure di convenzione; lei invece cerca il suo personaggio ben preciso nella realtà sociale italiana», scrive su “Cinema Nuovo”. La bellezza era certo la prima cosa che di lei balzava all’occhio, con uguale potenza nei panni semplici della contadina di “Cuori senza frontiere” e negli abiti di broccato di Paolina Bonaparte nel film “Venere imperiale”, che le valse il secondo David di Donatello, nel 1963. Un terzo arriverà per la commedia “Buonasera signora Campbell”, nel 1969, suggellando la sua verve brillante: Gina interpreta un’italiana che, durante la guerra, ha avuto una figlia dopo una relazione con tre militari americani, e ha fatto credere a tutti e tre di essere il padre. È la trama che ha ispirato “Mamma mia!”, solo che Lollobrigida passa senza battere ciglio dalla pochade al melodramma, con la naturalezza della sua solidità interpretativa.
Il David di Donatello le consegnerà poi altri quattro riconoscimenti, l’ultimo nel 2016, per omaggiare una carriera che ha saputo spaziare dal neorealismo rosa al kolossal hollywoodiano, passando davanti alla macchina da presa di Lizzani, De Sica, Germi, Lattuada, Sturges, Huston, Siodmak. Una carriera fatta anche di episodi che quasi sconfinano nella leggenda e che lei, da vera diva, rievocava senza troppa enfasi. Come l’ultimo sorriso che Tyron Power le rivolse prima di voltarsi e morire sul set di “Salomone e la regina di Saba”, o la volta che Orson Welles, nel 1958, arrivò con la troupe nella sua casa sull’Appia Antica per girare il documentario “Portrait of Gina”, in realtà un ritratto dell’Italia di quegli anni: la pellicola, rifiutata dalla tv americana, fu considerata dispersa fino a poco dopo la morte del regista, riemergendo all’Hotel Ritz di Parigi.
Quando Gina vide il film, si infuriò: Welles aveva lasciato di lei solo una piccola parte in cui parlava delle troppe tasse italiane. Ma c’è una schiera di bambini degli anni ’70 che la ricorderanno in tutt’altro modo: con i boccoli della Fata Turchina del “Pinocchio” televisivo di Comencini. Coi suoi impareggiabili occhi da gatta riusciva a emozionare anche un burattino: quegli occhi, di certo, non li dimenticheremo.